DA OSSERVATORIO - DICEMBRE 1994
Ciccio Di Bari in carica dal 1946 al 1949
I ritratti dei sindaci di Fasano a cura di Secondo Adamo Nardelli pubblicati su Osservatorio e successivamente nel libro "Medaglioni fasanesi"
Ciccio Di Bari
FASANO - Il 1946 fu l'anno che vide, dopo un quarto di secolo, la restituzione al Paese delle regole democratiche soppresse dalla rivoluzione fascista del 28 ottobre 1922. Il referendum istituzionale decretò la vittoria della Repubblica sulla Monarchia. All'Assemblea Costituente furono eletti 207 democristiani, 115 socialisti, 104 comunisti, 41 esponenti dell'Unione Democratica Nazionale, 30 qualunquisti, 23 repubblicani, 18 rappresentanti del Blocco Nazionale della Libertà, 7 del Partito d'Azione e 13 di altre liste. Il laboratorio democratico per scrivere la carta costituzionale nasceva così. Le ristrettezze di ogni tipo prodotte dalla guerra erano tutt'altro che superate e i cittadini si dibattevano tra la scarsità dei generi alimentari e l'impossibilità di accedere al mercato nero, dove gli accaparratori strozzavano la povera gente. Il costo della vita si aggirava, in teoria, sui seguenti prezzi di generi di prima necessità: pane lire 45 al chilo, pasta lire 83 al chilo, carne bovina lire 445 al chilo, uova lire 42 per coppia, latte lire 40 al litro, un pacchetto di sigarette nazionali da 10 pezzi lire 30, un francobollo per lettera lire 3,83. La tessera cosiddetta “del pane” dava diritto a 200 grammi di pane al giorno e a 500 grammi di pasta al mese. Quanta povera gente si introduceva con circospezione, dalla porticina alla quale si accedeva dal cortile del contiguo palazzo Potenza-Di Ceglie, nei locali del panificio di corso Garibaldi (oggi adibiti a farmacia). Ne era titolare l'indimenticabile galantuomo Cosimo Cofano, detto “il panettiere di Dio”. Non mandava mai nessuno a mani vuote, destinando le eccedenze di produzione della trasformazione della farina assegnata e contingentata ai bisogni del prossimo anziché al proprio profitto. Mai prese denaro, e a chi gli chiedeva il prezzo rispondeva: «Il pane è un dono del Signore: non si paga!».
C'era nel popolo un fortissimo desiderio di andare al potere per battere “i ricchi”. Giuseppe Ancona, ardente agit prop comunista, durante la campagna elettorale saliva sul podio per urlare il suo slogan: «I ricchi devono mettere il portafoglio a terra!». Un confuso desiderio di impossibile uguaglianza serpeggiava nel popolo. Socialisti e comunisti, legati dal nascente patto di unità d'azione, assunsero il compito di tradurre in consensi gli umori popolari del momento. Per attrarre le forze laiche si scelse come emblema della lista un gallo, rinunciando ai simboli di partito. La battaglia elettorale fu intensa e sotto certi aspetti pittoresca, se si tiene conto che la sinistra, seguendo un modello “laurino”, durante il suo svolgimento dispensava fave secche e altre cibarie all'angolo delle strade dei quartieri segnati da maggiore povertà. La destra, intimorita da questi fervori, scese in campo con gli esponenti più rappresentativi del ceto dominante. Infatti furono eletti nella minoranza don Ciccio Bianco, autorevole direttore e factotum della Banca Fasanese, e don Raffaele Mancini, presidente del Credito Agricolo e Commerciale Fasanese (l'intero sistema finanziario locale); don Alessandro Colucci, esponente dell'aristocrazia e del latifondo; donna Maria Chieco Bianchi, erede di grandi proprietari terrieri; Giuseppe Sante L'Abbate, esponente della famiglia che aveva governato la città durante il fascismo. Nella minoranza figurava anche il democristiano Vittorio Palmisano, universitario, già sindaco assegnato dal Comitato di Liberazione Nazionale. Guardia più potente e agguerrita per difendere il potere tradizionale era impossibile immaginare.
La lista del Gallo vinse, mandando in consiglio comunale 24 esponenti, in larghissima parte socialisti. Oronzo Guarini, infaticabile e inguaribile animatore della battaglia elettorale, fece collocare su un camion una barca su cui dominava una fiocina con infilzato un polpo di circa 10 chili, a voler simboleggiare che il popolo aveva sconfitto la piovra che lo strangolava. Il camion, dopo Savelletri, dove la popolarità dei Guarini era radicata tanto che l'elezione di Antonio, fratello di Oronzo, fu determinata proprio da quella frazione, girò trionfalmente per Fasano tra la curiosità della gente e l'entusiasmo dei vincitori della battaglia democratica, con Oronzo Guarini in piedi, a poppa della barca, austero come Nettuno, dio del mare.
Così Francesco Di Bari, meglio noto come Ciccio Di Bari, dottore in lettere, all'età di 27 anni, con un equipaggio composto da tantissimi idealisti e da qualche balordo, navigò alla conquista del Comune per sbarcare l'illusione socialista. Chissà in quel momento, dall'Aldilà, lo zio di cui portava il nome, il fu titolare del rinomato fòndaco di piazza Ciaia, che avrà pensato... Gli aveva donato “anti-parte” il fondo di Matarano (su cui sorge attualmente la Fasancalce), desideroso di vederlo prete. Se lo ritrovava, invece, seguace degli “anticristo”, maleodorante di zolfo anziché profumato d'incenso. Nacque così quella che fu definita “la giunta social-comunista”. Ne divennero assessori alcuni artigiani, piccoli commercianti e professionisti di assoluta onestà come l'edicolante Cosimo Carparelli, il commerciante di ferramenta Saverio Lacirignola e due indimenticabili professionisti, il geometra Pietro Monopoli e l'avvocato Mario Custodero. Componenti supplenti Francesco Sardella e Antonio Casarano, maestri artigiani di riconosciuta bravura. La vita di questa amministrazione non fu facile, per la contrapposizione silenziosa e operosa che il potere reale della società fasanese esercitò senza soste per eliminare quella che alla classe alta appariva come una anomalia, cioè il potere dei proletari. Nell'attività del consiglio comunale la destra assumeva atteggiamenti che sembravano segni di collaborazione con l'amministrazione comunale, mentre per vie sotterranee ne minava l'esistenza avvalendosi delle formidabili “entrature” di cui godeva negli apparati dello Stato per consolidata tradizione, a partire dalle prefetture.
L'inesperienza e l'ingenuità dei gestori non avvertiva questa opera logorante che i detentori del potere reale nella società svolgevano con tenace regolarità. Addirittura in aula facilitavano col silenzio l'approvazione di provvedimenti formalmente irregolari che potevano richiamare le responsabilità del sindaco e della giunta, affrettandosi poi a segnalare l'atto al prefetto, presso il quale avevano accesso senza anticamera e possibilità di comunicazione con ogni mezzo. La giunta fu costantemente sottoposta alle ispezioni prefettizie, ed ogni sia pur modesta violazione, peraltro senza alcun interesse personale del sindaco e degli amministratori, veniva rilevata come fatto di eccezionale gravità. Si trattava solitamente, per venire incontro alle esigenze della ricostruzione, di mandati di pagamento emessi e pagati prima della esecutività delle deliberazioni; la devoluzione a favore dei disoccupati del ricavato della vendita del prodotto della potatura degli alberi della villa comunale; l'attribuzione di un contributo di 250 mila lire al locatario della Casina Municipale per opere di straordinaria manutenzione dello stabile, e altre “irregolarità” che furono spulciate dagli ispettori. Tutto ciò, unito ad un'azione di delegittimazione operativa verso molti consiglieri comunali dagli “sportelli” della vita quotidiana, dai circoli e dai salotti, determinò uno sfilacciamento del consiglio comunale, dal quale si dimisero moltissimi componenti, tanto che il prefetto, facendo carico al sindaco e a un assessore di pendenza di giudizio amministrativo in base alla legge comunale e provinciale del 1934, e considerandoli perciò sospesi dalle funzioni di amministratori comunali, li sommò ai 14 membri già dimissionari, e potè così sciogliere il consiglio, ridotto al di sotto della metà dei suoi componenti. Così si concluse il 16 febbraio 1949 l'illusione del potere socialista.
Chi era Ciccio Di Bari? Sicuramente colto, onesto, popolano, riluttante all'abbigliamento di rigore, pronto alla battuta, elegante burlone, sempre disposto a riunirsi gioiosamente con gli amici piuttosto negli ambienti casalinghi che nei luoghi pubblici. Laureato in lettere e successivamente in giurisprudenza, eccelleva nel latino e greco, e sotto il suo insegnamento si formò positivamente una schiera di studenti. Come avvocato fu brillante, ma incapace di riscuotere parcelle. Fu un personaggio che incise profondamente nella vita politica e sociale della nostra città. Fu ottimo presidente dell'Azienda Autonoma di Soggiorno, contribuendo, in collaborazione non sempre pacifica con Aquilino Giannaccari, ad elevare il turismo del nostro territorio ai valori più alti.
Di un singolare episodio Ciccio Di Bari fu protagonista durante il sindacato. Si esibiva al Teatro Sociale una compagnia di avanspettacolo di quelle a buon prezzo che circolavano in periferia, con un capocomico e un “corpo di ballo” composto al massimo da 4 ballerine e una soubrettina che nel cartellone venivano definite “dieci-gambe-dieci”. L'attrazione era fortissima nel pubblico maschile: allora la pornografia e le nudità femminili erano vietate dal rigore dei costumi non ancora esageratamente liberati, e anche l'ingresso nei teatri dove si svolgeva il varietà avveniva con la stessa circospezione dell'accesso alle case chiuse. Il sindaco Di Bari, all'epoca scapolo d'oro, in compagnia di amici, si recò a teatro, dove fece ingresso mentre il capocomico recitava il repertorio delle barzellette politiche e nel momento in cui il protagonista della battuta era il leader dei socialisti, Pietro Nenni, con un linguaggio che al giovane sindaco apparve offensivo verso l'uomo politico più amato dagli italiani. A tal punto, Ciccio Di Bari, con passo deciso, mosse dalla barcaccia attraverso il corridoio delle poltroncine e, giunto al limite del golfo mistico, ad alta voce ordinò la sospensione dello spettacolo, nella sua qualità di sindaco, autorità di pubblica sicurezza. Fu, ad un tempo, un atto di sincera passione politica e di genuinità tipica del personaggio. Ma tutto si risolse per il meglio dopo un cordiale chiarimento del comico, in arte René, che placò «l'ira funesta del sindaco scoglionato» dall'episodio, e lo spettacolo, come dicono i circensi, continuò.
Secondo Adamo Nardelli
di Redazione
30/04/2012 alle 19:34:27
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